mercoledì 9 maggio 2012

A.I.C.I. Ancona
 

INVITO ALLA LETTURA   

                       2° suggerimento

                    in preparazione del 3° incontro del 

 

                    LABORATORIO ESPERIENZIALE per DOCENTI

                     FORMARSI PER NON FERMARSI
                               giovedì, 17 maggio 2012

Comunicazione e riconoscimento di identità docente/alunno

• Analisi elaborazione e soluzione di casi e situazioni reali




Nel prossimo 3° incontro ci occuperemo della COSTRUZIONE e del RICONOSCIMENTO di identità del docente da parte dell'alunno, come dell'alunno da parte del docente.

In previsione propongo ai docenti interessati due interventi "preparatori".
Qui di seguito il secondo (il  primo è stato pubblicato da qualche giorno):


CONCETTO TEORICO-FILOSOFICO DI IDENTITA' 



Una PREMESSA teorico-filosofica al LABORATORIO esperienziale sul riconoscimento di identità nella relazione docente/alunno
Chi sono io? Chi sei tu?
I recenti fenomeni di globalizzazione, come per esempio i processi di indebolimento delle barriere nazionali, le grandi migrazioni verso i paesi occidentali rendono di grande attualità, non solo sociologica, ma anche politica e sociale, la:
questione dell'identità,
molteplicità delle identità (nella collettività come nella singola persona)
possibilità di comunicarle
renderle intelligibili agli altri.

Cenni sulla nozione di identità: Locke, Hume, James...
La riflessione sul concetto di identità oscilla continuamente tra oggettività e soggettività, tra pubblico e privato, tra comportamentismo e solipsismo.
Di volta in volta, l’accento viene posto sul ruolo delle interazioni sociali, su quello delle caratteristiche interiori della persona o sulle convenzioni e costrizioni che imprigionano e orientano i nostri comportamenti e la formazione del carattere.
La riflessione sull’identità e sull’io nasce con il cogito di Cartesio, che sceglie l’io, la sostanza che pensa, come fondamento della teoria della conoscenza, sottraendolo metodologicamente al dubbio e ponendolo in aperto contrasto con la componente materiale dell’essere umano, la sostanza estesa.
Ma quale elemento custodisce l’identità della persona?
Locke propone la seguente definizione di persona: “essere pensante, intelligente, dotato di ragione e riflessione, che può considerare se stesso come se stesso, cioè la stessa cosa pensante, in diversi tempi e luoghi, il che accade solo mediante quella coscienza che è inseparabile dal pensare” (Locke 1988 Saggio sull’intelligenza umana). Di conseguenza, afferma Locke, il criterio di identità non può ridursi alla semplice unità e continuità di vita: è la coscienza che riflessivamente raccoglie in unità la vita dell’individuo considerato come persona e, dunque, come essere razionale. Nelle parole di Locke, l’identità personale consiste “nel fatto che un essere razionale sia sempre il medesimo; e di quel tanto che la consapevolezza può venir portata al passato, a qualunque passata azione e pensiero, fin là giunge l’identità di quella persona”.
La coscienza di sé è dunque il primo pilastro sul quale Locke fonda l’identità personale nel caso degli individui/persone. L’altro fattore irrinunciabile perché si possa parlare di permanenza dell’identità è “la memoria in quanto garante della continuità nel tempo della coscienza di sé.
Ciò che conta non è la biografia, ma la biografia ricordata.
Osserva Jervis (La conquista dell’identità: essere se stessi, essere diversi, 1999):
“Locke ci fa notare che quando noi pensiamo alla nostra identità, ci riferiamo a una particolarissima dignità psicologica e morale: questa è la dignità che ci deriva dal portare in noi stessi la piena, consapevole, responsabile memoria del nostro passato”.
La memoria del nostro passato è anche memoria di appartenenze comuni: nella nostra identità si intrecciano i ricordi dei luoghi e degli eventi che abbiamo condiviso con altri. Si creano così complicità e vicinanze che assumono un ruolo decisivo nel costituirsi di un’identità solida e stabile: l’assenza di memorie condivise e di contesti  provoca la crisi di quel senso di appartenenza al quale affidiamo la possibilità di rispondere alla domanda più antica e inquietante: chi sono?
Hume in alcune sezioni del Trattato sulla natura umana applica il suo metodo scettico per mettere in discussione la nozione stessa di identità: “taluni filosofi ritengono che noi siamo in ogni momento intimamente consapevoli di ciò che chiamiamo il nostro io; che avvertiamo la sua esistenza e continuità; e che siamo certi, al di là dell’evidenza di una dimostrazione, del suo carattere perfettamente unitario e identico a se stesso” (Hume  A Treatise of Human Nature 1971).
In realtà, osserva Hume, noi siamo consapevoli di noi stessi soltanto quando siamo impegnati in una particolare percezione: di volta in volta vediamo un paesaggio, ascoltiamo un suono, gustiamo un sapore, ma nulla ci garantisce l’esistenza di un’unità a cui riferire la totalità di queste percezioni.
Di conseguenza, “la memoria e l’immaginazione non sono ciò che ci fa scoprire una identità sottostante, ma assomigliano piuttosto a degli indicatori di una convinzione (ed anche di una convenzione) culturale: la convinzione grazie alla quale ricostruiamo retrospettivamente (o anche ‘produciamo’) un senso di identità” (Sparti 2000 Identità e coscienza).
L’identità, in definitiva, non è un fatto, ma un limite a cui tendere, una necessità psicologica, il riflesso di un bisogno irrinunciabile e dell’esigenza di dare un centro stabile e sicuro all’insieme turbinoso delle nostre percezioni ed esperienze.
William James (The principles of Psychology, 1950) individua tre aspetti fondamentali dell’identità individuale (parliamo di persone, ovviamente, non di individui in senso astratto)
__ Il self “materiale”, il nostro aspetto fisico, l’insieme di caratteristiche che contribuiscono al nostro modo di presentarci e di mostrarci. I lineamenti del viso, gli abiti, la casa, la famiglia, gli oggetti a cui teniamo maggiormente e dai quali raramente ci separiamo.
__ Il self “sociale”, il ruolo di cui siamo investiti nell’ambito dei nostri affetti e, soprattutto, nell’ambito, più rigido ed esigente, dei rapporti professionali. I doveri che regolano i nostri comportamenti in accordo con le convenzioni e le abitudini.
__ Il self spirituale: “l’essere interiore, o soggettivo, di un essere umano, le sue facoltà psichiche o disposizioni, prese concretamente”.
Se e quando l’identità individuale è intesa come una configurazione di concezioni che hanno origine nei processi sociali, la sociologia e la psicologia sociale diventano le discipline di riferimento per gli studi sull’identità.
I nomi più importanti che incontriamo in questa linea di pensiero sono quelli di George Herbert Mead (1966 Mente, Sé e società), che prosegue e approfondisce il lavoro di James sottolineando le componenti sociali e culturali nella costruzione del sentimento di identità, e di Erving Goffman nel cui studio  “l'individuo è stato implicitamente diviso in due parti fondamentali: è stato considerato come attore, un affaticato fabbricante d'impressioni, immerso nel fin troppo umano compito di mettere in scena una rappresentazione, ed è stato considerato come personaggio, una figura per definizione dotata di carattere positivo, il cui spirito, forza e altre qualità eccezionali debbono essere evocati dalla rappresentazione." (Goffman  La vita quotidiana come rappresentazione 1975, L'interazione strategica 1988).
Secondo Goffman la nostra identità si struttura quotidianamente attraverso le nostre recite, ma anche attraverso quello che siamo riusciti a trasmettere agli altri nelle nostre "recite",  per cui non c’è spazio per l’elaborazione interiore del soggetto: ciò che conta sono le azioni e i gesti che quotidianamente compiamo nel lavoro, nella vita affettiva, nel tempo libero.
La nostra identità è definita dai ruoli che di volta in volta siamo chiamati a svolgere e tuttavia  Goffman affida al soggetto un compito attivo nella costruzione dell’identità: “il self non corrisponde al ruolo interiorizzato ma viene attribuito proprio laddove l’individuo mostra la ‘sua’ differenza rispetto ai requisiti imposti dal ruolo”(Sparti, op. cit.).
In altre parole, l’individuo, pure impegnato e assorbito dai gesti e dai comportamenti imposti dal ruolo che è chiamato a interpretare, può continuare a trasmettere informazioni su di sé manifestando, verbalmente o no, il suo atteggiamento nei confronti del ruolo che lo assorbe. Si può, ad esempio, accettare di interpretare un ruolo mostrando allo stesso tempo di rifiutare la completa identificazione tra la propria identità e le caratteristiche che definiscono il ruolo. Anzi, questa esibizione di una presa di distanze dal ruolo di appartenenza sociale è un fattore decisivo, pressoché imposto culturalmente, per l’analisi del problema dell’identità nella società moderna.

Rielaborazione da Simonetta Bisi, http://w3.uniroma1.it/dcnaps/bisi

Buon lavoro a tutti, in questo periodo concitato e dinamico di fine anno scolastico


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