counseling:
quando l'adolescente chiede di essere aiutato...
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È il genitore, quasi sempre la mamma, a prendere contatto (preferibilmente telefonico) con il counselor: specifica immediatamente da chi è venuto il suggerimento di rivolgersi a noi, indirizza a noi, pur non conoscendoci, parole di elogio per gli esiti del nostro lavoro e infine chiede di fissare un appuntamento per la propria figlia o il proprio figlio, anticipando il problema e descrivendolo dal suo punto di vista. A noi counselor si impongono subito compiti essenziali: limitare al massimo l'eloquenza del genitore, accertarsi che il ragazzo (o la ragazza) sia informato di quanto si sta chiedendo a suo nome e soprattutto se sia concorde e determinato a mettersi in gioco.
Quando nella famiglia, che è un sistema (ved. G. Bateson) esiste un progetto educativo, anche se non sempre efficace o efficiente, è così che inizia, generalmente, la relazione del counselor con l'adolescente che chiede o almeno accetta di confidarsi con una figura esterna alla famiglia.
Nei casi in cui la famiglia/sistema è in difficoltà e vive situazioni che coinvolgono tutti i componenti con reciproche retroazioni (feedback) negative che ne impediscono equilibrio e crescita, accade invece che l'adolescente, seguendo il parere di qualche amico-coetaneo, decida di presentarsi al counselor da solo tentando di dare si sé un'immagine di autonomia e indipendenza che difficilmente corrisponde alla realtà. Per la mia esperienza, tuttavia, sono casi che si verificano raramente e per questo ritengo utile concentrare l'attenzione proprio su quanto più spesso accade con genitori premurosi, presenti e figli comunque scontenti e sfuggenti. [...]